Finalmente abbiamo un Governo. Così com'è devo dire, non mi dispiace, lo osservo con attenta simpatia, mi ispira fiducia, giovane, al femminile e soprattutto trasversale alle principali forze politiche.
Ottimista e fiducioso, provo quindi ad elencare quali possono essere i primi meriti che gli si possono attribuire e me ne vengono in mente subito due. Non molti quindi ma, ritengo, estremamente interessanti.
Il primo è quello di legittimare con la sua nascita, una riforma costituzionale da tempo attesa ed auspicata da una parte non affatto marginale della società italiana. La Repubblica Presidenziale. Una forma questa, da sempre avversata dalla sinistra italiana ma che di fatto, ha già dato prova di esistere. Il Presidente della Repubblica, infatti, non solo non si è più in grado di eleggerlo con gli attuali strumenti costituzionali ma addirittura, esercita (così come abbiamo visto negli ultimi 16-18 mesi) una straordinaria attività esecutiva, con buona pace delle rappresentanze politiche che emergono dalle elezioni. Il secondo merito, in via niente affatto subordinato al primo, è quello di aver scoperto (qualora ce ne fosse stato ancora bisogno) tutta l’inefficacia dei partiti con il sistema del bipolarismo. E su questo punto, mi ritorna in mente tutto il travaglio politico sofferto nell'estate del 2007, quando c’era da decidere se sciogliere o meno il partito della margherita per poter dar vita al partito democratico. All'epoca, risultava determinante la decisione dell’On. De Mita (Ciriaco) il quale, nell'autunno dello stesso anno, nel corso di un incontro a Pontecagnano (moderatore Enrico Mentana) si vide costretto a decidere per lo scioglimento del suo partito perché si potesse dar vita al partito democratico. Fu la notizia del giorno per tutte le testate giornalistiche nazionali. Nel decidere in tal senso non smise di essere critico e coerente così come ogni statista dovrebbe essere. Da quello stesso palco, così come aveva fatto per lunghissimi mesi, ricordava che la strada del bipolarismo non era la strada giusta per l’Italia e ne spiegava il perché. Perché l’Italia non è l’Inghilterra e meno che mai ha la cultura degli Stati Uniti d’America. Perché i due principali fronti politici, nati da scelte tattiche piuttosto che da una lenta maturazione culturale avrebbero finito per essere dei contenitori vuoti e questo avrebbe provocato disastri difficilmente prevedibili.
Disse, quindi, che continuava ad essere contrario alla forma bipolare, che la sua non era una scelta ma l’unica strada alternativa alla scomparsa del suo stesso partito. Insomma, il male minore. Nel suo ultimo libro, racconta un aneddoto, di quando, giovane funzionario irpino della democrazia cristiana, viene “presentato” ad Amintore Fanfani. Colui che lo presentò disse a Fanfani: Ecco, questo è un giovane e brillante dirigente irpino che farà molta strada, ha un solo difetto. Vede le cose con due anni di anticipo. Nel 2007 fu più lungimirante e per questo continua ad essere avversato dai mediocri. Ancora l’autunno scorso, a Chianciano, quando ormai già si respirava l’aria delle elezioni, spiegava che piuttosto che una coalizione di partiti era necessario guardare ad una coalizione di governo. Competere cioè ognuno con le proprie forze e, sulla base del risultato elettorale, dar vita ad un Governo accomunato da pochi ma essenziali punti di programma. Perché mi chiedo, ci lasciamo trasportare dai pregiudizi, dagli umori della pancia, dai personalismi, e non prestiamo invece una critica ed obiettiva attenzione a cose che pur ci vengono dette?
Il primo è quello di legittimare con la sua nascita, una riforma costituzionale da tempo attesa ed auspicata da una parte non affatto marginale della società italiana. La Repubblica Presidenziale. Una forma questa, da sempre avversata dalla sinistra italiana ma che di fatto, ha già dato prova di esistere. Il Presidente della Repubblica, infatti, non solo non si è più in grado di eleggerlo con gli attuali strumenti costituzionali ma addirittura, esercita (così come abbiamo visto negli ultimi 16-18 mesi) una straordinaria attività esecutiva, con buona pace delle rappresentanze politiche che emergono dalle elezioni. Il secondo merito, in via niente affatto subordinato al primo, è quello di aver scoperto (qualora ce ne fosse stato ancora bisogno) tutta l’inefficacia dei partiti con il sistema del bipolarismo. E su questo punto, mi ritorna in mente tutto il travaglio politico sofferto nell'estate del 2007, quando c’era da decidere se sciogliere o meno il partito della margherita per poter dar vita al partito democratico. All'epoca, risultava determinante la decisione dell’On. De Mita (Ciriaco) il quale, nell'autunno dello stesso anno, nel corso di un incontro a Pontecagnano (moderatore Enrico Mentana) si vide costretto a decidere per lo scioglimento del suo partito perché si potesse dar vita al partito democratico. Fu la notizia del giorno per tutte le testate giornalistiche nazionali. Nel decidere in tal senso non smise di essere critico e coerente così come ogni statista dovrebbe essere. Da quello stesso palco, così come aveva fatto per lunghissimi mesi, ricordava che la strada del bipolarismo non era la strada giusta per l’Italia e ne spiegava il perché. Perché l’Italia non è l’Inghilterra e meno che mai ha la cultura degli Stati Uniti d’America. Perché i due principali fronti politici, nati da scelte tattiche piuttosto che da una lenta maturazione culturale avrebbero finito per essere dei contenitori vuoti e questo avrebbe provocato disastri difficilmente prevedibili.
Disse, quindi, che continuava ad essere contrario alla forma bipolare, che la sua non era una scelta ma l’unica strada alternativa alla scomparsa del suo stesso partito. Insomma, il male minore. Nel suo ultimo libro, racconta un aneddoto, di quando, giovane funzionario irpino della democrazia cristiana, viene “presentato” ad Amintore Fanfani. Colui che lo presentò disse a Fanfani: Ecco, questo è un giovane e brillante dirigente irpino che farà molta strada, ha un solo difetto. Vede le cose con due anni di anticipo. Nel 2007 fu più lungimirante e per questo continua ad essere avversato dai mediocri. Ancora l’autunno scorso, a Chianciano, quando ormai già si respirava l’aria delle elezioni, spiegava che piuttosto che una coalizione di partiti era necessario guardare ad una coalizione di governo. Competere cioè ognuno con le proprie forze e, sulla base del risultato elettorale, dar vita ad un Governo accomunato da pochi ma essenziali punti di programma. Perché mi chiedo, ci lasciamo trasportare dai pregiudizi, dagli umori della pancia, dai personalismi, e non prestiamo invece una critica ed obiettiva attenzione a cose che pur ci vengono dette?
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