PACTA SUNT SERVANDA: REGOLA DELLA NATURA

Spesso si sente parlare di “rispetto delle regole”, ma non tutti ne comprendono le ragioni storiche, culturali e politiche che stanno alla base di tale precetto. Per evitare definizioni personali, più o meno condizionate dalle proprie ideologie e dalla visione della vita, si può richiamare il pensiero di Hobbes, che nel “Leviathan” riconduce il rispetto delle regole alle leggi di natura. Egli afferma che <<gli uomini debbono mantenere i patti che hanno fatto>> e che <<Senza di essa [la legge di natura] i patti si fanno invano e non sono che parole vuote e, persistendo il diritto di tutti gli uomini a tutte le cose, si è ancora nella condizione di guerra>>.
Il rispetto dei patti, perciò, che sono anche le regole scritte, da qualsiasi fonte provengano (dalla legge, fino allo statuto degli enti locali, ai contratti, ecc.), è, dunque, condizione necessaria per uscire dallo “stato di guerra”, che lo stesso Hobbes, che riteneva l’uomo come il lupo dell’uomo (homo homini lupus), lo sintetizzava con la massima “bellum omnium contra omnes”, la guerra di tutti contro tutti. Ed è forse per la medesima ragione che nel diritto internazionale pubblico c’è la regola pacta sunt servanda, avente natura consuetudinaria, universalmente accettata da tutti gli Stati, per cui ha valore di diritto inviolabile e precettivo (jus cogens). E’ evidente, quindi, che quando  non si osservino le regole vigenti (e fintanto che lo sono) è come se si agisse da esseri primitivi, da uomini delle caverne (con tutto il rispetto che questi comunque meritano), facendo prevalere l’istinto animale sulla ragione, che è stata, ed è (anche se a volte in alcune persone non è tanto nitida), la madre delle regole, perché grazie ad essa gli uomini sono riusciti a sostituire lo stato di pace a quello della guerra. Per questo l’invasione di campo da parte di alcuni politici (o politicanti nominati), seppur confortati nei giudizi da eminenti giuristi, non sempre disinteressati, delle prerogative riservate ai giudici dalla legge (e dalla Costituzione), oltre a non poter essere condivisa, deve essere perfino avversata, se si vuole impedire il ritorno dello stato di guerra. Peraltro, quando l’invasione avviene da parte di parlamentari che hanno il potere di riformare le leggi vigenti, le conseguenze sul piano della civile convivenza sono ancor più deleterie perché col loro comportamento si afferma la convinzione che le regole sono un optional, di cui si può benissimo fare a meno quando non giova. E neppure attenua il danno la presunta competenza giuridica formalmente posseduta da alcuni parlamentari, perché si tratta di un problema di ruoli istituzionali, per cui finché essi non entrano negli organici dei giudici (superando il concorso, ovviamente, dando così anche prova di quanto sono abili giuristi!), non possono emettere sentenze, il cui potere è riservato ai giudici, che fino a prova contraria sono terzi, neutrali. Da questo deriva, perciò, che l’unico rimedio consentito è quello di modificare le regole, ma anche di rispettarle finché sono in vigore. L’occasione, poi, risulta anche propizia per estendere, seppur a margine, il concetto che precede, al comportamento recentemente tenuto dall’amministrazione comunale cittadina in deroga alle regole vigenti, fissate nello statuto comunale. Non vi è dubbio che gli organi dell’Ente (e in particolare il Sindaco) abbiano delle prerogative, tuttavia il miglior modo per esercitarle non è quello di cambiare le regole dopo aver posto in essere gli atti potestativi, bensì prima di porli in essere.  E’ questo, quindi, il solo modo corretto, di procedere secondo giustizia e legalità. Guai, invece, ad agire in senso contrario, ossia in contrasto con la regola, perché al di là della legittimità o meno del provvedimento (su cui si potrà sempre esprimere un giudice competente) c’è sempre un danno sostanziale, incalcolabile e indelebile nella cultura di un popolo, dei cittadini, che è quello di aver fatto rivivere lo stato di guerra, uccidendo la ragione.

Teodoro Russo      

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